Da dove nasce il diritto? A questa domanda, nel corso dei secoli, sono state date talmente tante e variegate risposte che sarebbe impossibile darne conto in questa sede. Ci limitiamo a dire, volendo utilizzare uno schema forse semplificato ma certamente efficace, che le fonti a cui filosofi, giuristi, politici, intellettuali hanno fatto costante riferimento sono fondamentalmente due: Dio e la ragione umana. Il mondo moderno, a partire da quella che il professor Lombardi Vallauri ha definito la “cesura galileiana”, ha conosciuto perlopiù risposte di tipo razionalistico. L’idea del diritto, della sua origine, della sua efficacia è stata declinata in diverse forme, a volte anche molto distanti tra loro, ma sempre rimanendo ancorata ad un unico filo conduttore: quello di un approccio umano e profondamente laico. In questo senso il diritto diventa una sorta di artificio, di prodotto culturale. Anche l’approccio giusnaturalistico, troppo spesso, a torto, contrapposto formalmente al giuspositivismo, altro non è che l’altra faccia di una stessa medaglia in cui unica è la fonte di riferimento: la ragione umana. Enrico Opocher ricorda come il giusnaturalismo delle origini (quello della cosiddetta “Scuola del diritto naturale” di Grozio, Locke, Hobbes e Rousseau) finisca con il fondare in tutto o in parte il giuspositivismo, tanto che Norberto Bobbio ha parlato di “due fratelli nemici” . E il razionalista per eccellenza Hegel ha finito per disegnare un’idea di Stato che coincide con una sorta di “giusnaturalismo oggettivistico”, come ha spiegato Guido Fassò che, proprio per questo, ha definito Hegel un “giusnaturalista assoluto” .Il mondo antico, o della tradizione, se si preferisce, ha conosciuto invece la risposta metafisica. Da Eraclito a Platone, da Omero a Sofocle, da Cicerone a Sant’Agostino e a San Tommaso, la fonte del diritto viene individuata nella volontà degli dei (o del Dio cristiano) o nell’ordine cosmico. Le leggi, per usare un’espressione di Eraclito, il gigante del pensiero occidentale che rappresenterà il filo conduttore di questo lavoro, traggono tutte nutrimento da un’unica fonte normativa, che è divina e che a tutte sopravanza. C’è una differenza abissale però tra il pensiero filosofico classico e quello moderno e razionalista. Mentre il secondo (vi sono naturalmente casi e filosofi anche di gigantesco spessore che fanno eccezione) esclude dal suo limitato orizzonte ogni possibilità di contaminazione con la realtà metafisica, quasi sempre addirittura negando persino la possibilità di esistenza di un piano non umano e relegando un’intera tradizione culturale nel mondo della superstizione, il primo non nega diritto di cittadinanza alla ragione umana, anzi la esalta. Vedremo addirittura come sia stata proprio la spiritualissima cultura greca a rappresentare anche l’origine del pensiero razionale e della logica. La presenza del senso del sacro, dei riti misterici, della diffusa e assoluta credenza negli oracoli, del timore quotidiano dell’uomo greco di offendere la sensibilità degli dei olimpici non ha impedito il sorgere di una formidabile cultura razionale, intimamente connessa alla parola, al ragionamento, alla logica ferrea. Tanto che dobbiamo ai filosofi greci l’origine e lo sviluppo (insuperato) dello studio dell’argomentazione giuridica. Una cultura che ha permeato lo stesso mondo del diritto in cui non è difficile scorgere un solido punto di equilibrio tra la ragione e il sacro. E se la dialettica, come vedremo, rappresenta il punto di congiunzione e di passaggio tra l’anima mistica e spirituale dei greci e l’anima razionale, è in fondo nel cuore di ogni uomo, come ci insegnano gli antichi “Maestri di verità”, che si incontrano la verità metafisica e la verità razionale. Per rispondere allora alla domanda di partenza, e intuire così il senso più profondo dell’incontro tra le due verità apparentemente inconciliabili, scomodiamo Platone e uno dei suoi miti più suggestivi: quello della creazione dello Stato, di cui l’Ateniese parla nel Protagora. Platone racconta che, quando creò gli esseri viventi, Zeus affidò a Prometeo ed Epimeteo i mezzi che ne garantissero la sopravvivenza. Epimeteo però svolse talmente male il proprio compito che l’uomo si trovò sopraffatto dalle fiere. Prometeo tentò di rimediare donando all’uomo il fuoco e, con esso, la conoscenza delle téchnai. Ma gli uomini continuavano a restare in uno stato di isolamento e in lotta gli uni contro gli altri. Zeus allora decise di affidare ad Hermes l’incarico di distribuire a tutti gli uomini appunto l’aidós (la coscienza morale) e la díke (il senso della giustizia). Da allora ogni uomo è naturalmente predisposto alla vita politica e cerca di ricostruire, nella terra, una comunità ordinata eticamente e retta da un principio di giustizia. Un’idea squisitamente classica e anticontrattualista dell’origine dello Stato che ritroviamo identica nell’idea aristotelica dell’approdo naturale alla fondazione della comunità. Dunque la risposta: l’origine del diritto sta scritta nel cuore di ogni uomo dove albergano, quali principi innati, l’aidós e la díke. Principi che, essendo stati posti in un tempo mitico, e dunque eternamente presenti nell’animo, fanno parte della stessa natura umana. Da qui nasce quel senso dell’ordine e dell’armonia, che ogni uomo avverte naturalmente dentro di sé (e che tutti sentiamo propri), che conduce allo Stato e, quindi, al diritto. La ragione dell’uomo può individuare la via che conduce alla verità scritta nel suo cuore? La risposta non può che essere positiva. Ce lo indicano proprio gli antichi maestri. Eraclito insegna che “la via in su e la via in giù sono una e la medesima”, tracciando una duplice via alla conoscenza del logos, il principio divino, la scintilla di eterno nascosta dentro ogni uomo. Spiega Heinrich Rommen: “Eraclito intravede dunque l’idea di una legge naturale eterna che corrisponde alla ragione dell’uomo in quanto partecipe del Logos eterno” . È il principio delfico del “conosci te stesso”, il medesimo principio che spinge Antigone ad affermare davanti al tiranno Creonte la vigenza delle leggi scolpite nel cuore di ogni uomo. Dentro di noi, insomma, vi è la chiave di accesso a verità universali. È la via di Kant che, dal senso profondo, interiore e irrazionale del dovere, intuisce l’esistenza della legge morale che domina l’universo (“… il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”) .Vi è una parola greca che indica questo percorso, la via del logos, del ritorno a se stessi e alla Verità universale: ?thos. Abitualmente, traduciamo tale espressione greca con la parola “etica”. Nel linguaggio comune, il termine “etica” viene utilizzato come sinonimo di “morale”, dimenticando peraltro la distinzione fondamentale tra etica e morale che dobbiamo ad Hegel. Per quanto ci riguarda, è bene chiarire il significato che si intende dare al termine “etica”, perché è proprio la fedeltà all’?thos il principio che ha cercato di ispirare la nostra ricerca. Ebbene, al di là del linguaggio comune, il termine etica ha ben poco a che vedere con la morale. Se l’etica deve indicare, come abbiamo spiegato, il percorso di ritorno a se stessi e la via verso la Verità, non possiamo che intendere il termine ?thos nel suo senso etimologico. Originariamente con tale espressione si indica la dimora, il soggiorno, l’abitazione. E solo in seconda battuta, la consuetudine, l’uso, il costume e quindi l’istituzione. L’etica, originariamente intesa, rimanda dunque al luogo delle origini. È fedeltà alla realtà, ritorno alla dimora interiore e alla natura (anche alla natura stessa dell’uomo). In questa prospettiva, ad esempio, si comprende bene il mito platonico della creazione dello Stato come mito profondamente etico, in quanto è di tutta evidenza che la costituzione dello Stato altro non è che un ritorno alla dimora interiore dell’uomo (dove albergano aidós e díke), alla natura stessa dell’anima umana. La fedeltà alla natura dunque ci porta nei sentieri dell’etica, sentieri dai quali, a parere di chi scrive, il diritto non può deviare. In questa ottica di saldo ancoraggio ai principi etici, è possibile superare la concezione meramente giuspositivistica e laicista del diritto e senza bisogno di tentare antistorici approcci di tipo moralistico o addirittura religiosoconfessionali.Naturalmente questo lavoro non vuole (né potrebbe) essere un trattato sull’etica. Si è scelto di focalizzare l’attenzione su uno degli istituti più antichi e più attuali allo stesso tempo del diritto: il processo penale. L’analisi storica e filosofica delle origini del processo e lo studio della funzione e del ruolo odierno che questo fondamentale istituto riveste nell’intera civiltà occidentale, portano ad una conclusione obbligata: la fedeltà dell’attuale processo penale al rito processuale codificato nella civiltà classica dimostra la sconvolgente attualità di un modello universale di accertamento della verità presente nell’ordine naturale. Se il processo accusatorio, come si cercherà di dimostrare in questo lavoro, è la proiezione giuridica della eterna lotta degli opposti, dell’agón esistente in natura (come ha sottolineato Spengler, il mondo stesso, per l’uomo greco, è un enorme ed eterno agón che si svolge secondo severe regole di combattimento), allora dobbiamo avere il coraggio culturale di affermare l’impossibilità di separare etica e diritto o, comunque, l’attualità pratica di principi di diritto naturale eternamente validi. Se per conoscere la verità processuale, il giurista del terzo millennio ancora guarda con religiosa devozione alle intuizioni e agli insegnamenti dei pensatori e dei giuristi classici, riproponendo schemi, riti e persino regole dell’antico processo penale, significa che i sapienti dell’antica civiltà occidentale restano oggi insuperati. Perché hanno colto le leggi eterne di natura, quelle che, per usare un’espressione di Goethe, non trascorrono. A chi ritiene che il diritto possa fare a meno delle leggi iscritte nella natura e svincolarsi così da un ancoraggio etico, è bene rispondere che la scienza giuridica contemporanea ogni volta che ha tentato di ridisegnare istituti processuali (ma non solo) sempre più affidabili e rispettosi delle garanzie delle parti, ha finito per riproporre, consapevolmente o meno, gli antichi modelli classici. Valgano le parole illuminanti di Francesco Galgano il quale, nella prefazione di un saggio di Sergio Fusai sul processo omerico, non senza nascondere un certo stupore, scrive: “Si direbbe che l’umanità abbia, per secoli, e anzi per millenni, ricercato invano il modello ideale di processo, per poi ritrovarlo nella più remota antichità, alle origini della propria civiltà o, quanto meno, della civiltà occidentale” . Un “ritrovamento”, ci si permetta di aggiungere, che non è casuale. Gli antichi maestri della civiltà occidentale avevano colto il Vero esistente nelle eterne leggi di natura. Quelle leggi, come grida Antigone, che non sono d’oggi, non di ieri, ma vivono sempre e nessuno sa quando comparvero né dove.