L’Università nacque (per inciso: nell’Italia medievale e con lo studio del diritto; molti lo sanno, ma pochi se lo ricordano quando si disquisisce sulla “offerta formativa” per i futuri giuristi e si pretende di ometterne la Storia del diritto medievale) con la straordinaria scintilla irner...
L’Università nacque (per inciso: nell’Italia medievale e con lo studio del diritto; molti lo sanno, ma pochi se lo ricordano quando si disquisisce sulla “offerta formativa” per i futuri giuristi e si pretende di ometterne la Storia del diritto medievale) con la straordinaria scintilla irneriana di un insegnamento che stimola allo studio e di uno studio che si fa motu proprio insegnamento: il sinolo di ricerca e didattica (“studendo docere”) come cuore dell’Università.
Poi, recentemente, soprattutto per raccogliere finanziamenti, hanno inventato la “terza missione”, una sorta di radicamento sul territorio (una inconscia compensazione localistica, forse, all’esterofilia anglofona che punteggia la mission di ogni università desiderosa di presentarsi smart), che per molte discipline non ha una sana logica.
Insomma, il professore universitario si dedica ad una triplice attività, resa sempre più disarticolata dalla burocrazia accademica che ne frantuma l’originaria unitarietà in adempimenti via via più avulsi l’uno dall’altro.
Ebbene, ciò che vorrei testimoniare in queste poche righe (che gli sembreranno già troppe, conoscendone l’idiosincrasia ad essere soggetto celebrato) è l’energia con cui Alberto Sciumè ha incarnato le due anime universitarie (ricerca e didattica) e ha accondisceso, con pazienza maggiore di quanto (non) facciano colleghi più giovani, alla missione territoriale.
Cominciando da quest’ultima, devo riconoscere che, a ben pensarci, non era da stupirsi, perché uno dei punti forti del “fare il professore universitario” secondo Sciumè è sempre stato, fin da tempi non sospetti (ante “terza missione”), la valorizzazione della sede in cui si lavora. Valorizzare le risorse bibliografiche (penso all’impegno per la “Biblioteca interfacoltà” e per il suo fondo antico), valorizzare i fondi presenti negli archivi bresciani (dal gruppo di lavoro che Sciumè ha diretto per lustri, su cui infra, sono usciti saggi, monografie ed edizioni dedicati al “buongoverno del Territorio di Brescia”, agli Statuta medievali della città e delle sue corporazioni, alle istituzioni della Terraferma Veneta, a Zanardelli: tutti fondati su fonti archivistiche inedite locali) e soprattutto valorizzare i giovani studiosi ‘autoctoni’, evitando certi (non rari) fenomeni di “importazione di massa” e “colonizzazione” che soffocano le risorse umane locali.
Lo Jus Brixiae del titolo del presente volume, e la sua Parte Prima che raccoglie contributi storico-giuridici dedicati al territorio bresciano, stanno a evocare anche questa “terza missione” ante litteram, ed è per questo che ho iniziato da qui.
Sull’attività di ricerca scientifica – tornando alla duplice anima del docente universitario – condotta da Sciumè, non intendo affatto essere io ad illustrarla: primo, perché so che non apprezzerebbe il gesto; secondo, perché mi sembra fuori luogo ‘referare’ chi ha scritto più e meglio di me; terzo, perché tale attività emerge già bene dai richiami che ne fanno anche i contributi “vigentisti” raccolti nella Parte Seconda di questo volume.
Mi limito soltanto a evidenziare che Sciumè ha sempre privilegiato, quando ha potuto, prospettive ampie, senza alambiccarsi nell’erudito compiacimento antiquario, ma misurandosi con i temi “forti” (solo qualche esempio con qualche esemplificazione in nota: i principî generali del diritto; la formazione e il ruolo del giurista; diritto, giudici e giustizia; la cultura giuridica tra secondo e terzo millennio; le sfide economiche del diritto; l’Europa; il diritto e la persona) perché sono i temi – diceva – con i quali dovranno confrontarsi gli studenti, i giuristi di domani.
Quindi ius Brixiae sì, ma anche alibi.